San Giuliano in Pomario
nella memoria dei suoi vecchi

Giorgio Rizzi
Pubblicato su "Como e dintorni" n. 42 - marzo 2007






Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”
(Fabrizio De Andre’)


Cosa mai puo’ legare la piu’ famosa strofa del grande cantautore genovese, troppo presto scomparso, al pittoresco quartiere di San Giuliano in Pomario, che dalle pendici della montagna di Brunate si allunga verso il centro citta’?
Cosa unisce la poesia di De Andre’ all’intreccio di strette vie e vicoletti che, se da un lato fanno la felicita’ di turisti e pittori spesso affacciati alla scalinata di Via Santo Monti per immortalare la cupola del Duomo, dall’altro canto sono la disperazione di chi in queste zone ci vive e fa i conti ogni giorno con strade intasate e parcheggi a dir poco introvabili? Un dizionario puo’ venirci in aiuto.
Dice il Palazzi: “Pomario sm. lett. (dal lat. Pomarius); frutteto, meleto.”
Oltre al dizionario, per stendere queste modeste note non sono andato a frugare in vecchi e polverosi archivi, ne’ mi sono avvalso della tecnologia di internet, ma, semplicemente, ho provato a parlare con le persone con i capelli bianchi delle quali il quartiere di San Giuliano in Pomario e’ ricco e la cui saggezza abbraccia tre secoli buoni.
Escludendo frutti piu’ preziosi, che al massimo facevano la loro comparsa sulle tavole del tempo sotto forma di un arancio quale regalo di Natale, i miei “informatori” non rammentano che, a memoria d’uomo, di mele da queste parti ne siano mai state coltivate in maniera significativa, forse a causa di un terreno dalle caratteristiche poco adatte a questo tipo di sfruttamento.
Peraltro basta fare un giro negli orti e nei giardini della zona, per notare come crescano rigogliosi gli ortaggi, ma scarseggino gli alberi da frutta.
Anche il mio piccolo giardino conferma che la qualita’ della terra e’ poco adatta alla frutticoltura: un castagno ormai ventenne si ostina nel tempo a non produrre ricci con dentro qualcosa di commestibile ed il fico e’ tale solo di nome, perche’ ostenta orgoglioso la sua bellezza, ma non fa un frutto neanche a bagnarlo con l’acqua di Lourdes.
Tuttavia, frugando nel nostro dialetto, non e’ difficile dare un altro significato al vocabolo “pomario”: le patate, com’e’ noto, si chiamano in comasco “pomm de tera” ed e’ probabilmente dalla coltivazione dell’umile, ma preziosissimo tubero che viene il nome del quartiere.
Certamente le patate non erano ancora giunte dalle Americhe ai tempi della grande villa romana riportata alla luce nel 1975 in Via Zezio, proprio all’angolo con Via Tommaso Grossi, che dovrebbe risalire al II secolo, ma quelli erano tempi in cui i patrizi romani non avevano problemi a sfamarsi con lauti pasti, per poi andare a crogiolarsi nelle terme Pliniane, posizionate tra viale Lecco e via Dante che, dopo anni di degrado, sara’ finalmente possibile vedere trasformate in un decoroso luogo di storica memoria e in un indispensabile parcheggio.
Vi furono invece periodi in cui il quartiere di San Giuliano in Pomario ospito’ numerose e ben piu’ umili bocche da sfamare.
Alla fine dell’attuale Via Maurizio Monti, tracciata all’inizio del diciannovesimo secolo su un sentiero che scendeva dalla montagna di Brunate, sorgevano un tempo l'Ospedale San Gottardo a destra, che venne poi trasformato in orfanotrofio, poi in ospizio ed infine demolito, mentre a sinistra vi era il convento femminile di San Lorenzo.
Su tutto faceva buona guardia la chiesa dedicata ai Santi Giuliano ed Ambrogio, nata come basilica dei monaci cluniacensi per garantire moralita’ ed autonomia da sovrani e signorotti del tempo, poi divenuta piano piano luogo di pieta’ e di culto per tutti gli abitanti della zona.
Erano periodi di miseria, durante i quali sfamare gli orfanelli, i vecchietti dell’ospizio, le pie vergini del convento, era un problema quotidiano di difficile soluzione.
La patata, pur nella sua umilta’, rappresento’ certamente per quei tempi una risposta al fabbisogno alimentare della popolazione autoctona: ricca di vitamine, carboidrati, ferro, fosforo, potassio, per chissa’ quanto tempo contribui’ alla crescita dei bimbi, al mantenimento in buona salute degli anziani, alla dieta giornaliera delle suore e di tutta la popolazione del quartiere.
Tuttavia la coltivazione della patata non e’ affare semplice, essendo essa esigente quanto a manutenzione: particolare rilievo deve essere dato all’approvvigionamento di sali minerali ed all'irrigazione, poiche’ il tubero e’ notoriamente molto sensibile agli stress idrici.
Sicuramente l’acqua non rappresento’ mai un problema in una citta’ come Como, dove in primavera piove per settimane intere, ne’ dovette esserlo in una zona come San Giuliano in Pomario, che ai tempi era solcata dal torrente Valduce e dai corsi d'acqua che scendevano dal monte di Brunate; invece reperire i sali minerali indispensabili a garantire un buon raccolto, non era cosi’ facile.
L’unica fonte delle preziose sostanze, a quei tempi, era rappresentata dal letame che, pur con tutti i suoi spiacevoli difetti, ha da sempre fornito vita e sostanza alle coltivazioni.
Ecco quindi che, per generazioni, gli abitanti di San Giuliano in Pomario furono impegnati nella raccolta del letame presso gli scarsi e spesso lontani allevamenti di bestiame, al suo immagazzinamento in cumuli fumanti presso i campi coltivati ed alla sua stesura sul terreno.
Ancora oggi un nomignolo poco elegante, ma denso di significati, ricorda questa antica attivita’ degli abitanti della zona: i comaschi DOC conoscono ancora San Giuliano in Pomario come “ul burg di merdee’”...
Sono passati secoli: oggi nel borgo vivono migliaia di persone; l’immigrazione ha confuso gli idiomi ed ha abbattuto le barriere razziali.
Il quartiere e’ cresciuto e le botteghe artigianali tipiche di una volta hanno lasciato il posto ad esercizi piu’ al passo con i tempi: sono comparsi i negozi di generi etnici, le agenzie di lavoro interinale, gli studi immobiliari.
L’ospedale Valduce raccoglie pazienti da tutta la provincia, i turisti sgranano gli occhi davanti al Palazzo Terragni, mentre cio’ che rimane dell’antico chiostro di San Lorenzo, decadente ma sempre meraviglioso, e’ oggi blindato dietro pesanti cancelli, onde evitare che, come ogni spazio vuoto della citta’, diventi asilo per sbandati e poveri diavoli senza dimora.
Il dialetto originale non si sente quasi piu’ risuonare nei vicoli antichi e nessuno dei bimbi che corrono a frotte verso le scuole di Via Brambilla si volta stupito a guardare due occhi a mandorla, o una compagna che indossi il chador.
Va bene cosi’: il mondo si avvia a diventare una grande famiglia, indipendentemente dalla razza, dalla religione o dal colore della pelle.
Eppure, in quest’epoca della globalizzazione, non mi e’ impossibile trovare ancora qualche canuto nonnino che, venuto a conoscenza delle mie origini, mi ricordi con un filo di ironia che appartengo al “burg di merdee’”, quasi a farne, centinaia di anni dopo, una questione di status sociale.
Tuttavia, anche se non so se gli appunti sopra riportati abbiano una dignita’ storica, perche’, come dicevo, vengono solo dalla memoria di vecchietti con i capelli bianchi, talvolta allegramente sclerotici ma, a parte questo, con una salute da fare invidia, a me piace pensare che questo sia il vero passato del quartiere che mi ha dato i natali.
Un passato forse cosparso di letame, ma che ha garantito il nutrimento a generazioni intere.
Certo, chissa’ cosa penserebbe Eugenio Montale della sua strofa:

“Godi se il vento ch’entra nel pomario
vi rimena l’ondata della vita…”


Di sicuro l’ondata non avrebbe un buon profumo, ma quanto a donare la vita, questo e’ certo; la patata ha infatti continuato a sfamare per secoli i “sangiulianesi” ed i comaschi interi, compresi quelli che ci prendono in giro per le nostre origini, come scrisse un poeta dialettale:

“te ringrazi pomm de tera
t’eet salvaa’ i gent de la famm
in temp de guera…”


Aveva ragione De Andre’: dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior.
Per il quartiere di San Giuliano in Pomario e per chissa’ quante persone che qui vennero nei secoli a procurarsi il cibo quotidiano, fiori di patata, fiori di vita.


Altro che “merdee’”…