“Dai
diamanti non nasce niente, dal letame nascono i
fior”
(Fabrizio De Andre’)
Cosa mai puo’ legare la piu’ famosa strofa del
grande cantautore genovese, troppo presto scomparso, al
pittoresco quartiere di San Giuliano in Pomario, che
dalle pendici della montagna di Brunate si allunga verso
il centro citta’?
Cosa unisce la poesia di De Andre’
all’intreccio di strette vie e vicoletti che, se da
un lato fanno la felicita’ di turisti e pittori
spesso affacciati alla scalinata di Via Santo Monti per
immortalare la cupola del Duomo, dall’altro canto
sono la disperazione di chi in queste zone ci vive e fa i
conti ogni giorno con strade intasate e parcheggi a dir
poco introvabili? Un dizionario puo’ venirci in
aiuto.
Dice il Palazzi: “Pomario sm. lett. (dal lat.
Pomarius); frutteto, meleto.”
Oltre al dizionario, per stendere queste modeste note non
sono andato a frugare in vecchi e polverosi archivi,
ne’ mi sono avvalso della tecnologia di internet,
ma, semplicemente, ho provato a parlare con le persone
con i capelli bianchi delle quali il quartiere di San
Giuliano in Pomario e’ ricco e la cui saggezza
abbraccia tre secoli buoni.
Escludendo frutti piu’ preziosi, che al massimo
facevano la loro comparsa sulle tavole del tempo sotto
forma di un arancio quale regalo di Natale, i miei
“informatori” non rammentano che, a memoria
d’uomo, di mele da queste parti ne siano mai state
coltivate in maniera significativa, forse a causa di un
terreno dalle caratteristiche poco adatte a questo tipo
di sfruttamento.
Peraltro basta fare un giro negli orti e nei giardini
della zona, per notare come crescano rigogliosi gli
ortaggi, ma scarseggino gli alberi da frutta.
Anche il mio piccolo giardino conferma che la
qualita’ della terra e’ poco adatta alla
frutticoltura: un castagno ormai ventenne si ostina nel
tempo a non produrre ricci con dentro qualcosa di
commestibile ed il fico e’ tale solo di nome,
perche’ ostenta orgoglioso la sua bellezza, ma non
fa un frutto neanche a bagnarlo con l’acqua di
Lourdes.
Tuttavia, frugando nel nostro dialetto, non e’
difficile dare un altro significato al vocabolo
“pomario”: le patate, com’e’ noto, si
chiamano in comasco “pomm de tera” ed e’
probabilmente dalla coltivazione dell’umile, ma
preziosissimo tubero che viene il nome del quartiere.
Certamente le patate non erano ancora giunte dalle
Americhe ai tempi della grande villa romana riportata
alla luce nel 1975 in Via Zezio, proprio all’angolo
con Via Tommaso Grossi, che dovrebbe risalire al II
secolo, ma quelli erano tempi in cui i patrizi romani non
avevano problemi a sfamarsi con lauti pasti, per poi
andare a crogiolarsi nelle terme Pliniane, posizionate
tra viale Lecco e via Dante che, dopo anni di degrado,
sara’ finalmente possibile vedere trasformate in un
decoroso luogo di storica memoria e in un indispensabile
parcheggio.
Vi furono invece periodi in cui il quartiere di San
Giuliano in Pomario ospito’ numerose e ben piu’
umili bocche da sfamare.
Alla fine dell’attuale Via Maurizio Monti, tracciata
all’inizio del diciannovesimo secolo su un sentiero
che scendeva dalla montagna di Brunate, sorgevano un
tempo l'Ospedale San Gottardo a destra, che venne poi
trasformato in orfanotrofio, poi in ospizio ed infine
demolito, mentre a sinistra vi era il convento femminile
di San Lorenzo.
Su tutto faceva buona guardia la chiesa dedicata ai Santi
Giuliano ed Ambrogio, nata come basilica dei monaci
cluniacensi per garantire moralita’ ed autonomia da
sovrani e signorotti del tempo, poi divenuta piano piano
luogo di pieta’ e di culto per tutti gli abitanti
della zona.
Erano periodi di miseria, durante i quali sfamare gli
orfanelli, i vecchietti dell’ospizio, le pie vergini
del convento, era un problema quotidiano di difficile
soluzione.
La patata, pur nella sua umilta’, rappresento’
certamente per quei tempi una risposta al fabbisogno
alimentare della popolazione autoctona: ricca di
vitamine, carboidrati, ferro, fosforo, potassio, per
chissa’ quanto tempo contribui’ alla crescita
dei bimbi, al mantenimento in buona salute degli anziani,
alla dieta giornaliera delle suore e di tutta la
popolazione del quartiere.
Tuttavia la coltivazione della patata non e’ affare
semplice, essendo essa esigente quanto a manutenzione:
particolare rilievo deve essere dato
all’approvvigionamento di sali minerali ed
all'irrigazione, poiche’ il tubero e’
notoriamente molto sensibile agli stress idrici.
Sicuramente l’acqua non rappresento’ mai un
problema in una citta’ come Como, dove in primavera
piove per settimane intere, ne’ dovette esserlo in
una zona come San Giuliano in Pomario, che ai tempi era
solcata dal torrente Valduce e dai corsi d'acqua che
scendevano dal monte di Brunate; invece reperire i sali
minerali indispensabili a garantire un buon raccolto, non
era cosi’ facile.
L’unica fonte delle preziose sostanze, a quei tempi,
era rappresentata dal letame che, pur con tutti i suoi
spiacevoli difetti, ha da sempre fornito vita e sostanza
alle coltivazioni.
Ecco quindi che, per generazioni, gli abitanti di San
Giuliano in Pomario furono impegnati nella raccolta del
letame presso gli scarsi e spesso lontani allevamenti di
bestiame, al suo immagazzinamento in cumuli fumanti
presso i campi coltivati ed alla sua stesura sul terreno.
Ancora oggi un nomignolo poco elegante, ma denso di
significati, ricorda questa antica attivita’ degli
abitanti della zona: i comaschi DOC conoscono ancora San
Giuliano in Pomario come “ul burg di
merdee’”...
Sono passati secoli: oggi nel borgo vivono migliaia di
persone; l’immigrazione ha confuso gli idiomi ed ha
abbattuto le barriere razziali.
Il quartiere e’ cresciuto e le botteghe artigianali
tipiche di una volta hanno lasciato il posto ad esercizi
piu’ al passo con i tempi: sono comparsi i negozi di
generi etnici, le agenzie di lavoro interinale, gli studi
immobiliari.
L’ospedale Valduce raccoglie pazienti da tutta la
provincia, i turisti sgranano gli occhi davanti al
Palazzo Terragni, mentre cio’ che rimane
dell’antico chiostro di San Lorenzo, decadente ma
sempre meraviglioso, e’ oggi blindato dietro pesanti
cancelli, onde evitare che, come ogni spazio vuoto della
citta’, diventi asilo per sbandati e poveri diavoli
senza dimora.
Il dialetto originale non si sente quasi piu’
risuonare nei vicoli antichi e nessuno dei bimbi che
corrono a frotte verso le scuole di Via Brambilla si
volta stupito a guardare due occhi a mandorla, o una
compagna che indossi il chador.
Va bene cosi’: il mondo si avvia a diventare una
grande famiglia, indipendentemente dalla razza, dalla
religione o dal colore della pelle.
Eppure, in quest’epoca della globalizzazione, non mi
e’ impossibile trovare ancora qualche canuto nonnino
che, venuto a conoscenza delle mie origini, mi ricordi
con un filo di ironia che appartengo al “burg di
merdee’”, quasi a farne, centinaia di anni
dopo, una questione di status sociale.
Tuttavia, anche se non so se gli appunti sopra riportati
abbiano una dignita’ storica, perche’, come
dicevo, vengono solo dalla memoria di vecchietti con i
capelli bianchi, talvolta allegramente sclerotici ma, a
parte questo, con una salute da fare invidia, a me piace
pensare che questo sia il vero passato del quartiere che
mi ha dato i natali.
Un passato forse cosparso di letame, ma che ha garantito
il nutrimento a generazioni intere.
Certo, chissa’ cosa penserebbe Eugenio Montale della
sua strofa:
“Godi se il vento ch’entra nel pomario
vi rimena l’ondata della vita…”
Di sicuro l’ondata non avrebbe un buon profumo, ma
quanto a donare la vita, questo e’ certo; la patata
ha infatti continuato a sfamare per secoli i
“sangiulianesi” ed i comaschi interi, compresi
quelli che ci prendono in giro per le nostre origini,
come scrisse un poeta dialettale:
“te ringrazi pomm de tera
t’eet salvaa’ i gent de la famm
in temp de guera…”
Aveva ragione De Andre’: dai diamanti non nasce
niente, dal letame nascono i fior.
Per il quartiere di San Giuliano in Pomario e per
chissa’ quante persone che qui vennero nei secoli a
procurarsi il cibo quotidiano, fiori di patata, fiori di
vita.
Altro che “merdee’”…
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