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Stavamo
ancora digerendo il pranzo di Natale e gia’ i media, archiviata la
ricorrenza ormai commercialmente obsoleta, propinavano consigli su
come passare l’ultimo dell’anno. A
San Silvestro, quando il tappo dello champagne non aveva ancora
toccato terra dopo lo schiocco augurale, la TV annunciava che era
tempo di comperare la calza della Befana, salvo poi seppellirci con la
pubblicita’ dei costumi di carnevale non appena la vecchietta dal
naso bitorzoluto aveva riposto la scopa. Approfittando
di feste tradizionali, di ricorrenze inventate di sana pianta, oppure
mutuate da altre culture, la societa’ del consumo non si ferma mai;
se la gente non spende di suo, le opportunita’ si creano, si
inventano, si importano, si impongono. Ogni
mese c’e’ una buona scusa per creare un’occasione commerciale
messa li’ apposta per alleggerire il nostro portafogli, farci
riempire la casa di cose inutili, gli armadi di vestiti che si
indossano una volta sola, i pargoli di pacchettini infiocchettati. In
questo clima di acquisto selvaggio, alla faccia della crisi economica,
i dolci la fanno da padrone; piacciono a tutti, gratificano il corpo e
l’anima, zittiscono i bambini per un po’, sono riciclabili per il
prossimo invito e, non ultimo, consentono di “non arrivare a mani
vuote” senza affrontare spese eccessive. Tuttavia
la scelta non e’ facile: ancora una volta sono i media a dirigere il
gioco, relegando a precisi momenti dell’anno o a particolari
occasioni il tale o il tal’altro dolce. Natale
e’ fifty fifty tra panettone e pandoro, a Pasqua e’ d’obbligo la
colomba, per carnevale non possono mancare le chiacchiere, San
Valentino richiede particolari bon bon di cioccolato, confezionati
nella stagnola blu e con dentro un foglietto di carta velina con su
scritte frasi d’amore e cosi’ via. D’altra
parte chi cuccherebbe le ragazze se nel giorno degli innamorati si
presentasse con un pandoro in mano? E
che figura ci farebbe un ospite che servisse il panettone alla festa
della mamma? Ci
vuole poco per capire che anche chi e’ piu’ refrattario alle
convenzioni ed ai messaggi promozionali e’ comunque condizionato da
certe pressioni e da certe culture artificiali. In
mezzo a tutto questo bailamme di “imposizioni dolciarie”, una
piccola ma significativa oasi di liberta’ culinaria e’
rappresentata da quello che dovrebbe invece essere il leit motif delle
nostre tavole: i prodotti della tradizione, quelli cucinati dalla
gente semplice, quelli che si preparano quando la stagione lo consente
e non quando il calendario lo richiede, quelli che si conservano sotto
un tovagliolo pulito e non in una scatola partorita dalla mente di un
esperto di marketing, quelli
che, se consumati con criterio, non fanno male alla salute, perche’
dentro ci sono ingredienti poveri ma genuini e non schifezze chimiche. A
Como la tradizione dolciaria si chiama “resta”. Le
leggende relative alla nascita della resta sono molteplici; ogni
pasticciere ed ogni paesino della provincia sono convinti di essere i
depositari della verita’ storica ma, tra tutte queste memorie, a me
piace ricordarne una in particolare, non perche’ pensi che sia
l’unica ad avere dignita’, ma perche’ dentro ci sono tanti
valori che caratterizzano la gente per bene delle nostre parti:
l’accoglienza, la generosita’, il rispetto per le cose umili, la
capacita’ di godere con poco, la parsimonia. Si
racconta che, a cavallo tra il settecento e l’ottocento, ci fosse un
oste che nel giorno del suo onomastico non faceva pagare il pranzo
agli avventori, fossero essi clienti abituali o semplici passanti; un
modo semplice e generoso per fare festa insieme, condividendo quello
che passava il convento. A
concludere il pasto quel giorno compariva anche il dolce, una vera
rarita’ sulle tavole di quei tempi; certo non e’ pensabile che
allora si servissero torte debordanti di creme sopraffine o altri
simili prodotti dell’arte pasticcera: il dessert era poco piu’ di
un pane dolce, arricchito dalle uova, dai canditi e da pochi altri
ingredienti genuini. Capito’
che un giorno qualcosa ando’ storto durante la lievitazione
dell’impasto e il dolce comincio’ a gonfiarsi a dismisura, fino a
debordare dalla teglia. Erano
periodi di miseria nera, gli ingredienti per rifare il tutto non
c’erano e comunque buttare via tanto ben di Dio era un peccato
mortale, qualcosa di completamente opposto all’antica cultura ed al
buon senso. Il
bisogno aguzza l’ingegno e la soluzione salto’ fuori rapidamente:
preso un bastoncino dalla legna usata per alimentare il forno,
l’oste schiaccio’ la parte superiore dell’impasto, fino che il
legno fu completamente inglobato nel morbido composto; poi, nella
fessura creata dal bastone, infilo’ le parti che debordavano,
adattando il tutto con l’uso sapiente del coltello. Quando
il dolce fu cotto, l’incisione longitudinale lasciata dal bastone,
nonche’ i segni del coltello, crearono un disegno sulla parte
superiore che fece esclamare all’oste: “Par la resca d’un pe’ss”,
sembra la lisca di un pesce. Da
“resca” a “resta” il passo fu breve e con questo nome si
giunse ai giorni nostri. Puo’
darsi che la storiella sia vera; magari non lo e’ o, se lo fosse,
e’ possibile che sia stata profondamente influenzata da un paio di
secoli di tradizione orale. C’e’
chi dice che la storia della lisca di pesce sia tutta sbagliata e che
il “disegno” rappresenti la spiga di grano e simboleggi dunque la
primavera, stagione di rinascita fisica e spirituale, cosi’ come il
bastoncino, rigorosamente d’ulivo, annunci la Pasqua imminente. Qualcun
altro dice che il simbolo tracciato sul dolce sia una foglia di palma,
perche’ la resta veniva consumata solamente la Domenica delle Palme,
ma c’e’ chi obietta che a quell’epoca non c’erano dolci di
Pasqua e dolci degli altri giorni. Secondo
questi ultimi la resta non e’ legata ad alcuna simbologia, ma
appariva sulle tavole intorno a Pasqua solo perche’ era
esclusivamente in concomitanza con le festivita’ piu’ importanti
che la gente si sentiva di utilizzare un uovo in piu’ o una presa di
zucchero in piu’, impegnata come era a sbarcare il lunario per il
resto dell’anno. Insomma,
ce n’e’ abbastanza per accontentare tutti e per non defraudare
alcun paese o alcun pasticciere della propria versione. A
me continua a piacere la storia dell’oste generoso che, al di la’
dei valori umani e morali contenuti, racchiude in poche parole quello
che oggi e’ il dolce tradizionale di Como, poco piu’ di una
pagnotta un po’ bislunga, con la pasta gialla e con infilato al
proprio interno un bastoncino di ulivo, che la caratterizza
indelebilmente. Farina,
burro, lievito, uova, zucchero, uva sultanina e frutta candita;
ingredienti sani uniti a tanta sapienza ed abilita’, ad una
preparazione che richiede numerosi impasti, a tante ore di paziente
attesa, a chissa’ quale altro segreto, mai rivelato da generazioni
di pasticcieri ed il gioco e’ fatto. La
resta e’ pronta e, con i delicati profumi che l’uvetta e i canditi
le conferiscono, si presta bene a tutte le occasioni, tanto la prima
colazione quanto il fine pranzo. I
vecchi la pucciavano nel vino rosso o nel caffelatte; oggi, che siamo
piu’ stile’ e meno ruspanti, possiamo accompagnarla ai vini dolci
o liquorosi, oppure gustarla nel cappuccino o davanti ad una tazza di
cioccolata fumante. Pero’,
giusto per non prenderci in giro, il modo piu’ ghiotto per
apprezzarla lo conosciamo tutti molto bene: che goduria rubacchiarne
una fettina fuori pasto, quando sarebbe proibitissimo e fare contenti,
una tantum, il palato, lo stomaco e lo spirito birichino che non
smette mai di tentarci! In
fondo e’ un piccolo peccato di gola: non vale nemmeno la pena di
confessarlo, soprattutto al dietologo. Oggi
siamo fortunati: per quanto in crisi, viviamo ancora nella societa’
dell’opulenza e per gustare un’ottima resta non e’ necessario
attendere Pasqua, perche’ le pasticcerie la producono tutto
l’anno. Allora
coraggio: offrire una fetta di resta e’ una buona occasione per
mantenere vivo un pezzetto della nostra cultura, per non lasciarci
sopraffare da miriadi di messaggi globalizzati ed e’ anche un buon
modo per dimostrare la nostra ospitalita’ a chi viene da lontano. E
poi, detto tra noi, e’ anche una bella scusa per mangiare qualcosa
di goloso, facendo finta che lo facciamo solo per non lasciare
scomparire una nostra antica tradizione; in fondo la cultura locale
vale bene un po’ di “rotolino” sui fianchi!
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