La favola di Natale dei maghi a metà


Giorgio Rizzi
Natale 1994
Reg. SIAE 0404347



Quella che segue è una favoletta da quattro soldi, della quale feci dono a mia moglie in un Natale di chissà quanti anni orsono e che mi aiutò ad uscire dal solito tremendo impasse in cui mi trovo quando devo fare dei doni.
Donare qualcosa che viene dal cuore o dalla mente è l’unico modo che concepisco per celebrare le grandi occasioni; certo, le persone che ruotano nel mio mondo e che comprendono come uno scritto, una giornata insieme, uno sguardo dolce, una mano tesa, possano essere il più bel dono di Natale, sono poche e quasi non bastano a riempire le dita di una mano, ma sono le poche persone che danno il sapore alla mia vita.
Per tutti gli altri qualcun’altro provvederà col solito pacchettino infiocchettato; non è quello il mio Natale.
Come dite? Oggi non è Natale? E cosa importa!
Dimenticate il Cappellaio matto? Quello che festeggiava ogni suo non-compleanno, ogni giorno della sua vita?
Solo quando si è nei guai ci si rende conto come sia bello ogni non-compleanno, ogni non-Natale, solo perché si è sani, solo perché si è vivi, solo perché qualcuno ci tiene per mano.
E allora permettetemi di lasciarvi questo dono, scritto col linguaggio un po’ ingenuo delle favole e lasciatevi andare per cinque minuti a godervi il vostro non-Natale.
Di certo qualcuno vi ama, di certo anche oggi vale la pena di essere vivi, anche pieni di guai, ma con una fiammella di calore accesa da qualche parte...
Oggi è anche il vostro non-compleanno? Caspita che combinazione! Buona lettura.

Vivevano un tempo, in una città lontana nascosta tra le montagne del nord, due maghi, uno di carne ed ossa, l’altro tutto di freddo metallo, ma con un cuore caldo così.
Per essere precisi non erano proprio due maghi veri, erano maghi a metà; infatti essi custodivano il segreto del più grande incantesimo del mondo, l’incantesimo del volo, ma ognuno dei due era a conoscenza solo di una metà della magia.
Così, per potere realizzare questo prodigio, il mago di metallo accoglieva nel proprio grembo quello di carne ed ossa; i due si legavano strettamente l’uno all’altro e, dopo avere pronunciato alcune formule magiche in una strana lingua, chiamata fonia standard, compresa solo dai maghi e talvolta neanche da loro, riuscivano a librarsi nell’aria, cercando di spingersi ogni volta un po’ più in alto, ogni volta un po’ più lontano.
Piano piano si resero conto che in fondo non si trattava di una magia così impossibile da realizzare, almeno per chi si accontentava degli incantesimi così così, ma certo quei due non erano tipi da fermarsi dopo i primi risultati.
A furia di esercitarsi insieme divennero amici per la pelle e non passava giorno che non s’incontrassero per tramare nuove magie o per viaggiare, anche solo con la fantasia, verso nuovi orizzonti.
Lavoravano sodo! Il mago di carne ed ossa studiava vecchi e polverosi libri di formule magiche dagli strani nomi, come Jeppesen, Bottlang e AIP, cercando di trovare nuova sapienza tra le pagine sgualcite; il mago di metallo si affidava alle cure dei folletti dalla tuta blu che, seguendo rigorosamente le indicazioni del Grande Manuale, lo preparavano a realizzare tutta, ma proprio tutta la sua metà dell’incantesimo.
A poco a poco capirono che la loro magia funzionava sempre meglio, che avevano imparato a rispettare, ma non più a temere, le creature dell’aria t
oggi il centoventunesimo anniversario.alvolta nemiche dei maghi volanti, come la fata Nebbia, i giganti del paese dei Cumuli e, soprattutto, il grande Dio Vento, che spesso ce la metteva tutta per far sì che formule ed incantesimi non andassero per il verso giusto.
I due amici non stavano più nella pelle, ma il massimo della felicità lo raggiungevano quando potevano condividere il loro segreto con qualcuno che lo apprezzasse davvero.
Non era facile però trovare persone che credessero nella magia, neppure tra quelle che incontravano in cielo; la maggior parte di esse, infatti, spesso non si rendevano conto che avrebbero potuto essere a loro volta dei maghi, se pure a metà e si accontentavano di essere e di pensare da umani, chiamando “aeroplano” la metà metallica dell’incantesimo.
E, ciò che era peggio, per loro questa metà era fatta di cavi e bulloni, priva di ogni spirito.
I due amici non riuscivano a capire questa via di pensiero; ma perché, si domandavano, perché presi uno alla volta io sono solo un uomo, tu sei solo una macchina, ma insieme diventiamo magici?
Perché noi siamo certi che sia una magia quella ci fa volare, mentre tutti gli altri, che sembrano a noi così simili, dicono che i segreti del volo si chiamano trazione e portanza?
Eppure qualcosa di diverso deve esserci, perché io e te siamo sempre uniti in spirito anche quando non siamo in cielo, mentre gli altri, una volta slegati, si comportano da estranei.
Ma più domande si facevano e meno capivano.
La risposta arrivò improvvisamente proprio uno di quei giorni in cui fata Nebbia aveva fatto tanto bene il proprio lavoro da rendere impossibile ogni incantesimo.
I due, che avevano fatto grandi progetti per quel giorno, stavano insieme sulla porta dell’hangar con un muso lungo così; si erano ugualmente legati stretti l’uno all’altro, solo per il piacere di stare vicini, sbirciando a turno il cielo e aspettando con ansia che la voce del vecchio saggio ATIS annunciasse una distrazione della fata Nebbia, anche una distrazione piccolina, di pochi minuti, tanto per fare il più piccolo degli incantesimi, quello chiamato “giro campo”, che però avevano imparato ad apprezzare come i più grandi ed impegnativi, chiamati “navigazioni”.
E fu grazie a quella bramosia di volare, anche solo un minutino, che il significato della loro amicizia, così diversa dalle altre, balenò in un lampo davanti ai loro occhi: la magia per la magia! Solo per il gusto di realizzarla, e bene anche!
Cinque minuti o tre ore, poco importa!
La consapevolezza di avere realizzato un incantesimo al meglio delle proprie capacità, per vederlo bello e grande e non per sfruttarlo per secondi fini.
Ecco perché gli altri, che avrebbero potuto essere dei maghi, neppure se ne accorgevano: essi erano troppo impegnati a portare una macchina da un aeroporto all’altro e non capivano di vivere una condizione fatata; ecco perché era così difficile trovare qualcuno per condividere il gusto della magia!
La soluzione del problema rese i due amici un po’ felici ed un po’ tristi; felici perché si sentirono uniti come non mai, tristi perché si scoprirono ricchi di così tante emozioni da potere regalare, di così tante esperienze da potere trasmettere, che il non avere nessuno che ne capisse la grandezza appariva ai loro occhi come uno spreco inammissibile.
Eppure, dicevano, qualcuno doveva pur avere la mente giusta per comprendere.
Pensarono e ripensarono, rivoltarono la frittata da ogni lato ed alla fine giunsero insieme alla conclusione più logica, anche se a loro seccava un po’ ammetterlo.
Ma certo, si dissero: cerchiamo la magia per la magia, il volo per il volo, fine a sé stesso e non necessariamente realizzato per uno scopo preciso, così come fanno i bambini, per i quali il gioco è il fine unico ed ultimo e non ha motivi di essere se non per il fatto stesso di esistere.
Ecco chi può comprenderci: i bambini, gli unici ai quali la vita non ha ancora ammannito il piatto sciapo della indispensabilità di un effetto per ogni azione compiuta!
I due amici compresero in un lampo che finalmente avevano trovato un campo fertile dove gettare i semi della loro magia e cominciarono così a chiedere, ogni volta che incontravano un bimbo: “Chi siamo?”
Spesso la risposta era: “Un uomo ed un aeroplano”, ma nella maggior parte dei casi due piccoli occhietti stupefatti tradivano una diversa risposta, forse tenuta nascosta dalla timidezza: “Voi siete due maghi, magico è quello che fate e magico è il mondo dove vivete”.
A tutti i padroni di questi timidi occhietti, i due maghi si fecero carico di rivelare un po’ del loro incantesimo, non troppo, per non farlo sembrare né facile né banale, ma quel tanto che bastava per farlo attecchire se il terreno fosse stato adatto.
Ed evidentemente di buona terra ne trovarono e la loro passione ed il loro amore furono buoni aratri.
Oggi, infatti, di maghi a metà ce ne sono molti; sono tutti quelli che, alcuni di carne ed ossa, altri di metallo, hanno saputo restare, dietro la faccia seria e professionale o dietro le linee moderne ed aggressive, un po’ bambini.
Sono tutti quelli che ogni volta che spingono una manetta a fondo corsa, o che danno il massimo della loro potenza meccanica per staccarsi da terra, non dimenticano mai di essere gli artefici di qualcosa di bello e di grande e non soltanto i realizzatori di un principio fisico.
Quello che sanno l’hanno imparato da soli: i due amici di un tempo li hanno solo indirizzati sulla giusta via, ma loro hanno avuto la voglia e la tenacia di seguirla.
Perciò, quando vedete un bimbo che non fugge davanti ad un’ape ronzante, ma la osserva curioso, o che guarda incantato un foglio di carta piegato mentre galleggia nell’aria, o che, sgranando gli occhi davanti ad un aereo che decolla non sente il rombo del motore, ma il suono della magia, per favore, non costringetelo a crescere se non vuole e soprattutto, non deridetelo!
C’è un piccolo mago in lui. Anche se solo a metà.



Buon non-Natale! Non dimenticatevi mai del Cappellaio Matto.